Gruppo My Life
Maria Rosa
Nome
Nome
I miei genitori...ho i nomi delle mie due nonne...materna Rosa'...diminutivo di Rosaria e paterna Marietta...da Maria
Maria Rosa
Il mio primo ricordo
Il mio primo ricordo
Difficile...comunque il risveglio pomeridiano e io nell'aia assolata...
Maria Rosa
Autoritratto
Autoritratto
I mezzi busti sono un po' pretenziosi e imponenti...comunque...descrivo me stessa...sono massese...ho due figli...un figlio e una figlia...un marito...mi piace leggere e scrivere...prendo molte iniziative...alcune riesco ad approfondirle...con altre rimango un po' in superficie. Ho molte conoscenze e alcuni amici e amiche...
Maria Rosa
Famiglia
Famiglia
Le avventure col cuginetto...mia madre che mi pettina...e i campi e l'uliveto e la vigna
Maria Rosa
Insegnante
Insegnante
Penso alla cara insegnante Ida Carletti, ho iniziato a scrivere con lei, a Massa, è stata la mia insegnante della prima e seconda elementare poi io sono venuta a Pisa con la famiglia "ferroviera" e lei è andata in pensione...ed ero contenta perchè sapevo che l'avrei dovuta lasciare comunque. Era stata la compagna di scuola della mia nonna Marietta alla quale raccontava che io giravo sempre per la classe...ero così felice di andare a scuola e capivo certo che le sedie servivano per sedersi ma era troppo interessante fare visita alle altre bambine...eravamo tutte femmine poi a Pisa con l'insegnante Fantoni ho incontrato i maschi in classe. Interessante. Ida era bellina, magra, con la crocchietta dietro la testa minuta ed elegante. Indimenticabile.
Maria Rosa
Progetto
Progetto
Be da piccola 3-4anni si organizzava il gioco...sul terreno si tracciavano gli spazi della casa per iniziare il gioco delle mamme poi ricordo a 6-7 anni l'allestimento degli altarini....con fiori e immaginette ...per pregare e un tentativo a 7 anni di scrittura di parti da recitare ...il gioco fin dall'inizio è stato allestimento ...organizzazione degli spazi e distribuzione dei ruoli
Maria Rosa
Gioia
Gioia
Sempre quando andavo a trovare la mia cugina Lella e quando mi hanno regalato la bambolona bionda ...la prima di plastica...ma soprattutto una sera che Carla...io ero piccolissima, mi ha portato a a casa sua. Non avevo mai ricevuto abbracci così affettuosi...
Maria Rosa
Casa
Casa
Tante ...la prima a Massa...con i nonni e mio cugino Giuseppe e poi la casa di via Rismondo a Pisa...con i miei bimbi...bella spaziosa...
Maria Rosa
Viaggiare in Europa
Viaggiare in Europa
Si certo... Spagna Portogallo... Francia...etc....il paese che adesso mi attrae di più è la Francia...l'interno e le coste...
Maria Rosa
Poesia
Poesia
Sempre quando andavo a trovare la mia cugina Lella e quando mi hanno regalato la bambolona bionda ...la prima di plastica...ma soprattutto una sera che Carla...io ero piccolissima, mi ha portato a a casa sua. Non avevo mai ricevuto abbracci così affettuosi...
Maria Rosa
Volti
Volti
Bambino...bambina...sorrisi...occhi
Maria Rosa
Ponte
Ponte
Maternità...lavoro...malattia
Maria Rosa
Incontri
Incontri
Le prime riunioni di lavoro...che paura...quanti timori.... Poi forse gli esami...tre persone viene anche in mente un consulto medico...oppure un caffettino al bar con due amiche ...
Maria Rosa
Animali
Animali
Jolly il Cocker che avevamo quando avevo 6 anni e lasciato a Massa quando siamo venuti a Pisa...poverino!!! Ma non posso dimenticare il falchetto che per tanto tempo abbiamo tenuto in sala...sul trespolo...occhio acuto ...spaventava un po' ma era anche spaventato...gli davamo pezzetti di polmone....😊
Maria Rosa
Giochi d’infanzia
Giochi d’infanzia
Certo...a turno la palla al muro con tutta una sequenza....prima sempre con una mano...con un piede etc...la sequenza era lunga...non ricordo bene tutto ma ci giocavamo per ore a turno...con grande piacere...poi alle medie palla a volo...ero bravi a...
Maria Rosa
Musica
Musica
Una canzone dei Camaleonti...un lento...e io avevo forse 15 anni...quante emozioni...desideri paure e timori...
Maria Rosa
Tristezza
Tristezza
Adolescenza...preoccupazioni varie per un corpo che non avevo ancora imparato a conoscere...paura e vergogna ..i peli, il naso, il profilo etc....
Maria Rosa
Europa
Europa
Una storia che divide, una storia che unisce. Uniti ma non contro qualcuno...anche un pò disuniti, decentrati... Messaggio: guardiamo altrove...non siamo un tutto ma parte di un tutto.
Maria Rosa
Avventura
Avventura
Un viaggio in Portogallo da sola...25 anni...tutto nuovo...paura stupore solitudine e curiosità
Maria Rosa
Stanza
Stanza
Tutte...ogni luogo condensa ricordi...il divano a fiori in via Rismondo...grande salone...bimbi piccoli...molti smarrimenti
Maria Rosa
Voce
Voce
La nonna Rosà....babbo che recita poesie mentre si fa la barba...e mia cugina che mi raccontava storie...
Gabriella
Nome
Nome
Il mio nome è stato scelto dai miei genitori. Nessuno me l'ha raccontato, ma sono convinta che mio padre, pur essendo napoletano e molto affezionato alle tradizioni della sua terra, non volle darmi il nome di sua madre, come si faceva di solito. La mia nonna paterna infatti era una persona difficile che aveva tiranneggiato i suoi sei figli oltre che suo marito, il mio dolcissimo nonno Ettore. Si chiamava Rosmunda; forse papà pensò che quel nome fosse comunque troppo austero e probabilmente anche di cattivo augurio, vista la triste storia della famosa regina che lo portava: Rosmunda infatti era stata rapita e costretta a sposare Alboino, re dei Longobardi, che le aveva imposto addirittura di bere nel teschio di suo padre. Sono molte le persone della mia età che si chiamano come me. Il nome Gabriella andava di moda allora, perché così si chiamava una delle principesse di casa Savoia, figlia del re Umberto II. Mio padre però non aveva certo simpatie monarchiche: era figlio di un ferroviere iscritto al Partito Socialista. Io sono nata esattamente dieci giorni prima della Liberazione e non credo proprio che in quel periodo lui pensasse a rendere omaggio a chi aveva consegnato l'Italia alla dittatura e alla guerra. Ora che ci penso, mi viene in mente che, dato che papà aveva rinunciato alla tradizione, il mio nome sia stato scelto da mamma, che si era sposata giovanissima e ancora sognava di principi e principesse.
Gabriella
Il mio primo ricordo
Il mio primo ricordo
Ero andata al mare con zia Matilde, la sorella più giovane di mamma, che io adoravo: mi sembrava molto più libera e moderna di mia madre, si era laureata e lavorava come farmacista in una città diversa da quella in cui viveva con la famiglia: elementi di un'emancipazione non comune nell'immediato dopoguerra, soprattutto al Sud, tra le ragazze di buona famiglia. Ma non eravamo sole: al mare ci andavamo col suo fidanzato di allora, che io già chiamavo zio e sul quale trasferivo il mio amore per la zia. Zio Lucio era bello, elegante e soprattutto divertente. Giocava con me e mi faceva continui scherzetti: io e zia non la finivamo di ridere quando c'era lui. Quel giorno avevamo affittato una barca (a remi; di barche a motori allora non se ne vedevano in giro) per andare allo scoglio di Rovigliano, a un paio di chilometri dalla spiaggia di Castellammare, proprio davanti al Vesuvio. Su quell'isoletta sorgeva un castello diroccato, l'ideale per giocare a nascondino. Ma il gioco più bello era cercare le cose che zio Lucio nascondeva per me in ogni angolo. Piccoli tesori: una conchiglia, un sasso speciale, ma anche un frutto. Quel giorno impazzii di gioia quando trovai un enorme grappolo di uva bianca, la prima della stagione. E' un ricordo così nitido - sento ancora in bocca la frescura di quei chicchi biondi e sodi - che mi sono stupita, quando, parlando con mia zia qualche anno fa, ho scoperto che non potevo avere più di due anni e qualche mese. Perché poco tempo dopo loro si lasciarono. Con mio grande dolore ed eterno rimpianto.
Gabriella
Autoritratto
Autoritratto
Sono una vecchia signora di 77 anni e sono contenta della mia vita. Ho avuto due mariti (non contemporaneamente!), tre figli, di cui una adottiva, albanese, e ho cinque nipotine, tutte femmine. Cosa di cui sono particolarmente felice. Però quattro di loro vivono lontano e, se per parecchi anni questo è stato un buon motivo per viaggiare spesso, ora che spostarsi è diventato più faticoso, per mille motivi, la difficoltà di vederle crescere sotto i miei occhi mi addolora molto. Perchè sono loro i semi che ho lanciato verso il futuro. Anche se nella mia vita il lavoro di insegnante ha avuto lo stesso peso e suscitato le stesse passioni degli affetti, e delle amicizie. Amo il mare, prima di ogni cosa e mi sento a mio agio in acqua come un pesce... o una balena. Mi piace ballare (anche se ora devo rinunciare alle tarantelle) e passeggiare, ma non correre o fare sport. L'unica cosa per cui spendo senza riguardo sono i libri, che continuo ad acquistare ( e a leggere) in modo quasi compulsivo. E sono fiera di essere riuscita a trasmettere la passione par la lettura e la scrittura alle mie nipotine. Non sono mai stata iscritta a un partito, anche se ho sempre saputo con chiarezza da che parte stare. Ma sono stata e continuo ad essere femminista. Nel senso in cui usa questa parola Chimamanda Ngozi Adichie
Gabriella
Famiglia
Famiglia
La mia famiglia d'origine era napoletana, anche se io sono nata e sono vissuta sempre a Roma. Mia sorella è nata solo quando avevo ormai undici anni. Mia madre mi ha sempre parlato del matrimonio e della maternità come della fine di ogni sogno di donna. Così io ho cercato di dimostrarle che le cose potevano andare anche diversamente. Ci sono riuscita, ma non credo che me lo abbia mai perdonato. Mi sono sposata la prima volta a meno di vent'anni per amore e mi sono separata vent'anni dopo, di nuovo per amore. Non mi sono mai pentita nè di una cosa nè dell'altra. E col mio primo marito (il padre dei miei due figli maschi) e la sua seconda moglie siamo riusciti a mantenere un legame così affettuoso e forte che al matrimonio della loro figlia sono stata incaricata del discorso ufficiale. La nostra grande famiglia oggi conta sette rampolli della terza generazione. Una famiglia molto europea, perchè oltre a Lea, la mia figlia adottiva albanese che ha due figlie nate a Parigi che parlano un francese perfetto, ora abbiamo tra noi un greco, una inglese e una tedesca... viaggiamo molto.
Gabriella
Insegnante
Insegnante
Sono almeno tre gli insegnanti cui devo la mia formazione e il mio approccio al mondo. La maestra Gagliardi, una donna severa e bruttina, poco amata dalla maggior parte degli alunni, che dalla terza alla quinta elementare mi ha insegnato la passione per la scrittura. La mitica Casanova, professoressa di matematica e fisica, che mi ha instillato l'abitudine al rigore a all'onestà intellettuale; e il professore di religione del liceo, maestro di libertà e autenticità quanti altri mai. Oltre che di solidarietà concreta e fattiva nei confronti degli ultimi
Gabriella
Progetto
Progetto
L'unico progetto che ricordo di aver avuto molto chiaro in mente fin da piccola, e poi con più concretezza da quando è nata mia sorella e contemporaneamente io ho cominciato a frequentare la scuola media (avevo solo dieci anni e mezzo) è quello di andar via il più presto possibile dalla casa dei miei; per realizzarlo dovevo al più presto guadagnare in qualche modo quanto bastasse per essere autonoma. Prima dei ventun anni, certo, anche se allora si diventava maggiorenni solo a quell'età. Non che i miei genitori mi trattassero male, o non mi volessero bene, assolutamente; la cosa più pesate per me da vivere giornalmente era la depressione di mia madre e tutte le allusioni ai sacrifici che lei aveva fatto e continuava a fare per me, rinunciando a vivere per se stessa. Non mi sentivo affatto responsabile per le scelte che aveva fatto, ma era difficile liberarsi dai sensi di colpa che cercava di gettarmi addosso per ogni minima trasgressione alle regole - ed erano tante - che vigevano in casa. A scuola andavo benissimo e su quel fronte non potevo essere attaccata, ma ogni timido tentativo di pensare con la mia testa era considerato sintomo di ribellione, da stroncare sul nascere, e da punire. Me ne sarei andata, sì, al più presto, con un uomo, o anche da sola. Pensavo persino che, se non fossi riuscita a trovare altre vie d'uscita, sarei potuta partire per un paese lontanissimo come missionaria, o almeno volontaria, per salvare bambine e bambini delle zone più povere del mondo.
Gabriella
Gioia
Gioia
Il primo giorno di scuola, una scuola vera, ero felice come una pasqua. Finalmente! L'anno precedente ero ancora troppo piccola e così , visto che già sapevo leggere e scrivere, mi avevano mandato dalle suore di Santa Dorotea per fare la prima preparatoria, come si chiamava allora la primina, che mi avrebbe preparato, appunto, per presentarmi come privatista l'anno dopo ed entrare nella scuola pubblica direttamente in seconda elementare. Ma a me le suore non piacevano proprio; invece che leggere e scrivere, ci facevano giocare quasi tutta la mattina; c'era un bel giardino, è vero, ma io e le altre ragazzine ci passavamo ore e ore a cantare come cretine "oh che bel castello, marcondirodirondello..." e poi "oh quante belle figlie, madama Dorè... il re ne vuole una!". Ci sarei tornata da quelle suore, in via Matera per la preparazione alla prima Comunione; e questa seconda esperienza avrebbe sancito definitivamente il mio allontanamento non dalla religione, ma dal tipo di esperienza religiosa che rappresentavano. Loro sono ancora lì e ogni tanto quando passo davanti all'alto muro che chiude il giardino, risento l'eco di quelle filastrocche, e sono un po' più indulgente. Ma a cinque anni e mezzo, quando potei varcare il grande portone dell'austero palazzo liberty di via Etruria che ospitava (e ospita ancora) la Scuola Elementare Statale Giuseppe Garibaldi, col mio bel grembiule immacolato e un enorme fiocco azzurro ben stirato e inamidato, provai una gioia indescrivibile. Da allora ho sempre, , ma proprio sempre, provato una grande gioia, entrando a scuola. Fino al 31 agosto 2012, l'ultimo giorno di scuola della mia vita.
Gabriella
Casa
Casa
La casa dove sono nata e dove ho vissuto i primi dieci anni della mia vita era piccola e buia. Almeno così l'ho sempre sentita, perché così ne parlavano i miei genitori che, trasferitisi da Napoli a Roma appena sposati, durante la guerra, avevano dovuto rassegnarsi a spazi per loro angusti; e, soprattutto, soffrivano della mancanza delle grandi terrazze che davano luce e aria alle case in cui erano cresciuti. Così tutta la mia infanzia è stata segnata dalla necessità di risparmiare ogni singola lira per poter acquistare una casa di proprietà, più spaziosa e luminosa. Eppure io quella casa al piano terra di via Albenga l'ho amata molto. Perché, dopo che si fu sposata zia Maria, la sorella di papà venuta da Napoli per occuparsi di me subito dopo la mia nascita, avevo avuto la sua stanza tutta per me. Era uno stanzino lungo e stretto, ci entravano appena, in fila, il letto e una scrivania, ma mi bastava: potevo chiudermi lì dentro per ore a leggere, ad attaccare le figurine sugli album di Biancaneve e Cenerentola (avevo visto al cinema i film di Disney), a mettere in ordine la mia collezione di fotografie di attrici e attori del cinema; e potevo anche giocarci al dottore con le mie due amichette di allora, le nipoti della portiera. Sulla parete di fronte al letto c'era la grande lavagna di ardesia che papà aveva usato quando dava lezioni di matematica per arrotondare lo stipendio; e, in fondo, la finestra sul cortile da cui potevo spiare le altre famiglie e inventare storie di amore e di morte. La finestra della cucina, invece, dava sul giardinetto; quando il tempo era bello avevo il permesso di scenderci insieme a Oria e a Miriam. Ci vivevano due tartarughe simpaticissime che a gara rimpinzavamo di foglie di lattuga, attirandole fuori dai cespugli dove si nascondevano per sfuggire ai gatti di passaggio. Con i fiori rosa del trifoglio preparavamo intrugli che obbligavamo le nostre bambole di pezza a ingurgitare: le sgridavamo se storcevano la bocca, promettevamo caramelle e biscotti se mangiavano fino all'ultima briciola, raccontavamo favole, ci confidavamo l'una con l'altra le difficoltà del vivere.
Gabriella
Viaggiare in Europa
Viaggiare in Europa
Ho viaggiato molto nella mia vita e di nazioni europee ne ho visitate tante, quelle continentali quasi tutte, eccetto forse Romania e Bulgaria. Nel sud della Francia, in Provenza, ci ho vissuto e lavorato, anche, per quattro anni. In Inghilterra, in Spagna e in Germania ci andiamo spesso, perché ci sono pezzi di famiglia. La Grecia l'ho visitata per la prima volta in un viaggio scolastico, a diciassette anni, ci sono tornata come archeologa e poi con i miei studenti di greco antico e ora ci vado quasi ogni anno per le vacanze estive. In Islanda però non ci sono mai stata e sento ancora il rammarico per non aver accolto l'invito di un amico ornitologo che anni fa c'invitò a unirci a lui in un viaggio organizzato in quel paese dalla LIPU, sulle tracce di uccelli rari. Ma avevamo pochi soldi e a quei tempi l'Islanda era carissima.
Gabriella
Poesia
Poesia
La gioia di scrivere. Dove corre questa cerva scritta in un bosco scritto? Ad abbeverarsi ad un'acqua scritta che riflette il suo musetto come carta carbone? Perché alza la testa, sente forse qualcosa? Poggiata su esili zampe prese in prestito dalla verità, da sotto le mie dita rizza le orecchie. Silenzio - anche questa parola fruscia sulla carta e scosta i rami generati dalla parola "bosco". Sopra il foglio bianco si preparano al balzo lettere che possono mettersi male, un assedio di frasi che non lasceranno scampo. In una goccia d'inchiostro c'è una buona scorta di cacciatori con l'occhio al mirino, pronti a correr giù per la ripida penna, a circondare la cerva, a puntare. Dimenticano che la vita non è qui. Altre leggi, nero su bianco, vigono qui. Un batter d'occhio durerà quanto dico io, si lascerà dividere in piccole eternità piene di pallottole fermate in volo. Non una cosa avverrà qui se non voglio. Senza il mio assenso non cadrà foglia, né si piegherà stelo sotto il punto del piccolo zoccolo. C'è dunque un mondo di cui reggo le sorti indipendenti? Un tempo che lego con catene di segni? Un esistere a mio comando incessante? La gioia di scrivere Il potere di perpetuare. La vendetta d'una mano mortale. Wislawa Szymborska
Gabriella
Volti
Volti
Emma, la mia nipotina di tredici anni. Non è la prima nipote, ma è quella di cui ho potuto seguire passo passo la crescita. Sul suo volto, che non è più quello di una bambina e non è ancora quello di una donna, leggo il passato e il futuro. Il passato, non solo perché somiglia a mio figlio (e anche a me) in modo impressionante; ma soprattutto perché mi appare come il frutto di una storia lunga e complicata di amori, di dolori, di lotte, di conquiste. Il futuro perché il suo entusiasmo per il mondo, per la vita, per il suo corpo di donna che cresce, la sua curiosità, la sua generosità, sono più forti di tutte le disillusioni, di tutte le paure, di tutti i tradimenti che la sua breve storia ha già conosciuto.
Gabriella
Ponte
Ponte
A cinquantatre anni ho deciso di accettare un lavoro in Marocco; e di lasciare la mia città, la mia casa, mio marito; e tutte le amicizie importanti costruite nel corso della mia vita. I figli avevano già preso il volo e la partenza di Lea per un semestre all'estero era alle porte. Io mi sentivo da qualche tempo presa in un viluppo di relazioni e conflitti che rischiavano di strangolarmi. Del resto me n'ero andata dalla casa dei miei genitori molto presto ma non avevo mai vissuto da sola. E a cinquantatre anni avevo bisogno di solitudine. Il Marocco, dove avrei insegnato all'Università Mohamed V di Rabat, era abbastanza lontano, nello spazio, ma anche nel "tempo" per assicurare un distacco vero. Il ponte era lo stretto di Gibilterra, lo stretto per antonomasia, le colonne d'Ercole che avevano segnato fino a pochi secoli prima il confine tra il mondo conosciuto, e amico, e quello sconosciuto e potenzialmente pericoloso. L'avrei attraversato non per avventurarmi nell'oceano, ma in una terra al cui ingresso vedevo stagliarsi simbolicamente la scritta "hic sunt leones". Avrei scoperto che il ponte vero si trovava qualche chilometro più in là del tratto di costa dove sbarcai con la mia macchina stracarica. Ceuta, dove mi fermai a dormire la prima notte in un bell'albergo sul mare, per ristorarmi dal lungo viaggio in terra d'Europa e poter affrontare fresca e piena di energie ogni avventura, era ancora Spagna e il confine, la frontiera tra i due mondi che mi accingevo ad attraversare, era invisibile dal mare. Invisibile e inimmaginabile rimase dunque ancora per qualche ora lo spettacolo che mi trovai squadernato sotto gli occhi la mattina dopo. Donne, uomini, bambini di tutte le età, animali, asini per la maggior parte, carri carretti e autocarri, ceste e casse e balle di merci: tutto molto colorato, ma ugualmente ingrigito da un compatto strato di polvere. Voci, grida, pianti e risate e poi profumi e puzze di ogni tipo. Sapevo di godere di privilegi: col mio passaporto di servizio ottenni in poche ore il permesso di attraversare il varco stretto e inquietante sbarrato da postazioni di polizia plurime. Nessun benvenuto dall'altra parte.
Gabriella
Incontri
Incontri
Ero andata alla Piscina delle Rose, all'Eur, l'unica all'aperto a quei tempi, a Roma. Era una novità per me; le piscine non le amo. Appassionata come sono del mare di scoglio e delle lunghe nuotate verso l'orizzonte, le piscine mi danno un senso di claustrofobia, anche se sono all'aperto e mi annoio ad andare in poche bracciate da un lato all'altro di una vasca. Ma quel giorno avevo ceduto alle insistenze di un'amica, cui non interessava nuotare ma stendersi ad arrostire al sole. Devo a lei l'incontro che ha cambiato la mia vita. A dire il vero, Luciano l'avevo conosciuto qualche mese prima, in veste di supplente dell'insegnante di matematica di cui anche lui era stato allievo e che si era rotta una gamba. Così lui aveva dovuto sostituirla anche nella gita ad Arezzo che la professoressa aveva organizzato ad Arezzo perché da quella città avremmo potuto assistere all'eclisse totale di sole previsto per la metà di febbraio di quell'anno. L'anno della mia prima liceo. Era stato tornando in treno da quella gita che Luciano, giunto al termine del suo incarico, aveva cominciato a farmi la corte, ma io ero innamorata di un ragazzo della scuola e avevo ignorato le sue avance. L'estate successiva, quando lo incontrai di nuovo, per caso, sui bordi di quella piscina lo guardai con occhi diversi. Lui era un uomo, non un liceale ancora alla ricerca di se stesso, stava per laurearsi in ingegneria elettronica, una dei primi in Italia, e i suoi racconti sul soggiorno a Londra, da cui era appena tornato, mi aprivano mondi sconosciuti. Accettai il suo invito per un tè pomeridiano, all'inglese, qualche giorno dopo. Un tè, a metà luglio, a Roma.
Gabriella
Animali
Animali
Mio nonno Nicola, il papà di mamma, adorava gli uccelli e ne allevava tantissimi sulla grande terrazza della sua casa a Nocera. Canarini, soprattutto, ma anche verdoni e cardellini, i più delicati, che difficilmente riuscivano a portare a termine la cova. La nonna Antonietta era sempre arrabbiata per la confusione e la sporcizia che si accumulava in terrazza. Io cercavo di aiutare il nonno come potevo, rinnovando l'acqua fresca da bere e pulendo le piccole mangiatoie. Avevo imparato i nomi e le giuste proporzioni dei diversi semi che dovevo mescolare perchè il mangime fosse ricco e vario e sapevo quali piacessero di più a ogni specie. Quando andavo al mare mi mettevo alla ricerca degli ossi di seppia di cui i canarini erano ghiotti e passavo le ore a guardarli mentre si accanivano con il becco a frantumarne i bordi. Il momento più divertente era quando gli uccellini facevano il bagno nelle vaschette apposite spruzzando acqua dappertutto, tra gli strilli della nonna che minacciava di aprirle tutte, quelle gabbie, e di ridare la libertà ai piccoli prigionieri; che però sembravano amarla la loro prigione. E io ero sicura che se fossero usciti di lì sarebbero finiti in un baleno in bocca a uno dei gatti che passavano per i giardino. Stavo molto attenta a non lasciare aperte le porticine delle gabbie quando cambiavo i fogli di giornale che mettevamo sul fondo, per rendere più rapide le operazioni di pulizia. Quando una femmina deponeva le uova e cominciava la cova, la guardavo affascinata e contavo i giorni che mi separavano da quello in cui mi sarebbe stato rivelato il mistero della nascita. Poi una volta durante le vacanze di Natale che passavamo sempre da lui, il nonno mi regalò un uccellino tutto mio, da portare a Roma, e convinse i miei genitori, che là per là non furono affatto contenti di quel regalo. Invece poi papà cominciò ad affezionarsi più di me a quella presenza viva che rallegrava la nostra casa e riuscì persino a insegnare all'uccellino a girare libero per la casa e rientrare poi nella sua gabbia. Naturalmente prima di aprirne la porta chiudevamo bene tutte le finestre e in casa di gatti non ce n'erano. Ma un brutto giorno tornando da scuola non trovai più il mio piccolo amico. A me raccontarono di aver lasciato la finestra aperta per errore, ma ho sempre sospettato che la verità fosse più drammatica.
Gabriella
Giochi d’infanzia
Giochi d’infanzia
Quando ero piccola la strada in cui abitavo si affacciava su una grande distesa di campi che arrivava fino alla ferrovia. Macchine in giro non ce n'erano quasi, perciò i bambini potevano giocare tranquillamente sul marciapiede mentre nonne, mamme e zie lavorando a maglia li sorvegliavano a turno dalle finestre dei piani più bassi o chiacchierando sulla soglia dell'androne del palazzo. Le biciclette erano rigorosamente riservate ai maschi, anche se a me sarebbe piaciuto moltissimo imparare ad andarci, mentre del pallone, che loro si divertivano a prendere a calci con forza, non m'importava niente. Le bambine giocavano quasi sempre a corda: mentre una saltava fino allo sfinimento, altre due la facevano girare, contando ritmicamente in lunghe cantilene per decretare la vincitrice. E poi c'era la campana (perché si chiamava così?): disegnavamo sul marciapiede un grande rettangolo diviso in quadrati numerati e completato in alto da un semicerchio. Bisognava saltare su un piede solo passando in tutte le "case" e tornare indietro senza toccare le linee tracciate col gesso. Una bambola, magari di celluloide o di pezza, con gli occhi azzurri sbarrati e i capelli fatti dello stesso materiale del corpo, quasi tutte le bambine ce l'avevano, ma poche erano così fortunate da possedere anche un passeggino per portarla in giro.
Gabriella
Musica
Musica
"Cari amici vicini e lontani, buona sera!" Nunzio Filogamo dà il via al primo Festival della canzone italiana, organizzato dal Casino di Sanremo e dal Secondo Programma della Rai. È la fine di gennaio del 1951. Il momento è solenne: forse è la prima volta dopo la fine della guerra che le famiglie di tutta Italia si riuniscono intorno alla radio. L’atmosfera è festosa. Non si esce molto la sera, soprattutto d’inverno, le occasioni di svago sono poche. La televisione è di là da venire. Nel nostro piccolo appartamento, in fondo al corridoio che lo divide per lungo, c’è un angolo cieco tra la cucina, a destra, e un piccolo ripostiglio a sinistra, dove papà ha sistemato, sul mobiletto con le ruote che lui stesso ha costruito, la grande radio di radica, regalo di nozze. Intorno, su tre sedie dall’alto schienale, io e mamma, leggermente curve in avanti, nel desiderio di non perdere una sillaba, ascoltiamo concentrate, insieme a lui. Solo per poco: io prendo molto sul serio le raccomandazioni della maestra e lei dice che per avere buoni voti dobbiamo dormire almeno dieci ore per notte. Le canzoni in concorso sono troppe: ne ascoltiamo cinque o sei, poi papà spegne la radio e mi accompagna a letto. Per fortuna il giorno della finale è sabato e possiamo stare svegli per aspettare la proclamazione della canzone vincitrice. Siamo emozionati: sono due giorni che la radio non fa che parlare delle canzoni, dei cantanti, del pubblico elegante seduto ai tavolini che potrà votare… vorremmo essere lì anche noi. Il mio papà canta spessissimo e ha una voce molto bella. Quella canzone, per esempio, quella che fa da sigla al festival, lui la sa tutta e la canta ogni tanto, avvicinandosi a mamma e abbracciandola da dietro: “C’è una chiesetta, amor, nascosta in mezzo ai fior, dove m’hai dato un bacio a primavera…” Anche se lei gli dice «basta, non fare lo stupido… e poi c’è la bambina», che sarei io. Mamma non capisce che mi piace che lui canta e anche che l’abbraccia… ma lei è sempre scocciata e ha la faccia lunga. Allora lui si gira verso di me e mi fa l’occhiolino… smette di abbracciarla, ma non smette di cantare. Le sa tutte le canzoni, proprio tutte; e anche le arie delle operette, e quelle delle opere serie: “Quell’uom dal fiero aspeeetto…” è uno dei suoi pezzi forti. Ma ecco,ci siamo…viene proclamata la canzone viincitrice "Grazie dei fiori!". Io e mamma ci mettiamo a piangere per la commozione. Sono sicura che sta piangendo anche Nilla Pizzi, per la felicità.
Giovanna
Nome
Nome
La casualità della combinazione cromosomica che determina il sesso del nascituro trovò mia madre impreparata, lei, probilmente dette poca considerazione al fatto che avrebbe potuto partorire una femmina e, conseguentemente si trovò impreparata anche per la scelta del nome. Io nacqui in casa, ed allora, quando l'ostetrica dovette sbrigare la parte burocratica per la registrazione dell'evento, mia madre fece scrivere nel modulo, da consegnare presso il comune di nascita, il nome di Antonia. Forse, mia madre, desiderosa di un secondogenito maschio si era creata una falsa verità, oppure doveva aver pensato veramente che mio padre preferisse un figlio anzichè una figlia, ed allora per spirito di compensazione, o con l'idea di allietarlo e di fargli una cosa gradita scelse per me il nome dalla nonna paterna, Antonia. Ma evidentemente la scelta non fu molto apprezzata, difatti mio padre volle che mi chiamassi diversamente, per fortuna si sa che la burocrazia è lenta, pertanto la registrazione di Antonia presso il comune non fu immediata. Felice di avere una seconda figlia femmina, mio padre scelse per me un nome tutto mio, ed abbastanza in voga in quel momento, fu così che mi chiamo Giovanna.
Giovanna
Il mio primo ricordo
Il mio primo ricordo
intermittenti fasci di luce nella mia camera, bagliori noncuranti delle imposte socchiuse da mia madre la sera stessa. strane figure, direi gigantesche, quando più grandi, altre volte più piccole, si muovevano lungo le pareti, sul soffitto, talvolta scomparivano, per poi ricomparire di nuovo. Incuriosita, ma nascosta sotto le coperte, senza fiatare, ogni tanto sbirciavo da un angolino, un piccolo lasso di tempo, per poi attorcigliarmi nuovamente sotto le lenzuola, più mi attorcigliavo e meglio mi potevo nascondere, cosa che mandava su tutte le furie mia madre che, ogni mattina non riusciva a capire come mai il mio letto fosse così malmesso. Non osavo fare alcuna rivelazione, pensai che fosse meglio continuare a nascondermi, il sonno mi avrebbe aiutato fino al mattino, sapevo che al mio risveglio ogni cosa sarebbe ritornata nella normalità. Non rivelai il mio segreto, preferii dormire in compagnia di quei mostri, che poi tanto mostri non erano. Ogni sera Una lieve melodia mi accompagnava prima di addormentarmi, piccoli punti luminosi danzavano intorno a me, ed io con loro, uno, due, tre, quattro, stop, per poi ricominciare.
Giovanna
Autoritratto
Autoritratto
Gli occhi, attraverso gli occhi posso vedere, vedere gli altri, ciò che mi trasmettono, difficilmente vedo me stessa, i miei occhi sono di colore celeste, i miei capelli sono molto ricci, ma questo conta poco, se non per il fatto che ricordano mio padre, e di questo sono contenta. Mi guardo allo specchio, osservo il mio viso, ogni giorno ha qualche segno in più, le rughe, le stesse di ieri, oggi mi sembrano un po’ più profonde, non me ne faccio un cruccio, so che sono parte di me, sono le mie gioie, le mie paure, le mie sofferenze, la mia storia. Ho cura della mia persona, umore permettendo e, generalmente sono di buon umore. Ieri però, dovevo avere avuto proprio una faccia tremenda, non l’ho vista, ma l’ho intuita, ho sentito la pelle del mio viso irrigidirsi, la bocca serrarsi, mi sono arrabbiata di brutto, quando subisco dei torti non riesco proprio a frenarmi, pur sapendo che è a scapito del mio benessere, sento di dover reagire, per non stare peggio. In alcune circostanze mi viene in mente mia nonna, lei diceva che l’ignoranza è madre dell’arroganza, proprio così, io non sopporto chi superbiosamente fa sfoggio del suo sapere e non sa. Ma oggi il mio viso è sereno, ha la pelle rilassata, le rughe distese, è una giornata di sole, cammino leggera, la mente libera, sono certa che questo bellissimo giorno me lo godrò pienamente, cibo compreso. Lo so, anche se può non sembrare, sono una persona introversa, non faccio amicizia facilmente, schivo le nuove conoscenze, per timore, per paura, non saprei, malgrado ciò, ho molte amiche, ci incontriamo spesso, sto bene con loro, le voglio bene e loro lo vogliano a me. Sono gelosissima dei miei affetti, la famiglia ed i miei amici sono la cosa a cui tengo di più nella mia vita, penso che l’amore per gli altri si può esprimere in vari modi, non ho simpatia per le manifestazioni eccessive, anzi cerco di evitarle anche nel caso siano rivolte a me. Be, cosa altro potrei dire di me, non so, fondamentalmente sono così, per adesso mi sento così.
Giovanna
Famiglia
Famiglia
E quasi l’ora di pranzo, la tavola attende impazientemente l’arrivo dei miei familiari, è nostro desiderio ritrovarci periodicamente, quando a casa dell’uno o casa dell’altro, quando una volta e quando l’altra, non abbiamo una prestabilita periodicità, un po’ per gli impegni di ciascuno e un po’ perché non rientra nella nostra indole di dover programmare i pranzi, lo facciamo quando ne sentiamo il bisogno. Con i miei familiari, a parte i nipoti che spesso vengono da me, ci ritroviamo in diverse occasioni, talvolta anche solo per stare insieme, senza dover far niente di particolare, però al di fuori dei pranzi, non capita spesso di poterci ritrovare tutti assieme. Stranamente oggi la prima ad arrivare è mia figlia con il suo compagno, devo dire che ultimamente rispetta molto la puntualità. Come sempre porta una zuppiera di insalata, per la sua dieta, sa che non ho molta simpatia per questo tipo di cibo perciò ha il timore di non trovarne a sufficienza. Dalla porta di ingresso sento le voci dei miei nipotini che stanno salendo, ed ogni volta mi ripetono sempre la fatidica domanda, sempre la stessa: cosa c’è da mangiare? Mio figlio invece si trattiene nella sala da pranzo se il cibo è già sulla tavola, oppure si precipita in cucina, per un primo assaggio, mia nuora tiene sotto controllo i figli affinché non si abbuffino troppo. Fa parte della famiglia il mio compagno, il mio ex marito, mio nipote, infine mia sorella, che arriva sempre trafelata e stanca per i numerosi impegni. Eccoci qua, direi una famiglia allargata, con le diete da rispettare, ad ognuno la sua, siamo comunque di buona forchetta, i vassoi che sembravano troppo abbondanti, sono stati comunque tutti ripuliti, non mancano i lamenti da parte di alcuni, sempre gli stessi, per aver mangiato e bevuto troppo, ed a seguire i buoni propositi per i giorni a venire. Dopo il pranzo la conversazione continua, ognuno dice la sua, le voci spesso si sovrappongono, i bambini giocano, talvolta gridano, la tavola vive, risuona con armonia, evoca voci passate. La stessa tavola che mi vide bambina con mio padre, mia madre e mia sorella, talvolta allungata, per far posto anche a gli altri componenti che non erano sempre presenti. Spesso con noi sedevano i miei nonni, ed allora era la nonna a cucinare, preparava delle meravigliose polpette che metteva sulla tavola ancora fumanti, il calore emanava un gustosissimo sapore da far venire l’acquolina in bocca. Questa è la mia famiglia, semplice e spontanea, talvolta caratterizzata da tratti di impulsività accompagnati da sporadici litigi, sono sempre e comunque a prevalere i sentimenti che ci accomunano anche nelle nostre diversità, l’amore, il senso di solidarietà ci lega profondamente senza alcun condizionamento o convincimento.
Giovanna
Insegnante
Insegnante
Alla fine, forse per simpatia, mi ricordo ancora di lei, ricordo la sua presenza, che si intuiva lungo i corridoi, anche prima che entrasse in classe, dietro di lei, una scia di profumo dolciastro, che stucchevolmente impregnava gli ambienti, senza lasciare possibilità di scampo; penso che si trattasse di mughetto, perché mi ricorda tanto il profumo che usava la nonna. La mia Prof. di musica, una spilungona, alta e magra, con le braccia e le mani perfettamente in sintonia alla sua corporatura, tanto che le sue braccia sembravano due racchette da tennis, nell’esecuzione di continui movimenti. Per entrare in classe, mi immaginavo si dovesse curvare un po’, si, perché se non era più alta della porta, poco ci mancava, le mani sempre alzate, con l’intento di placare le animate conversazioni che, solitamente avvenivano al cambio di ogni lezione, In quella circostanza gesticolava animatamente, per far segno alla classe di tacere, quel segnale difficilmente veniva recepito all’istante, ed allora il suo viso si contraeva terribilmente, con un evidente espressione di fastidio e di irritazione, dovuto alla sovrapposizione di quelle voci, di conseguenza le si ritraeva fortemente anche la bocca, lasciando scoperta e, mettendo in evidenza tutta l’arcata dentale, spiccatamente pronunciata. Talvolta la stessa espressione di disgusto, la manifestava anche durante le lezioni di solfeggio, specie quando si avvicinava a me, non esitava affatto a mettere in bella vista la sua prominente dentatura, capivo all’istante che i miei gorgheggi non le erano graditi. Ho vivo il ricordo di questo piacevole incubo.
Giovanna
Progetto
Progetto
Niente domande, soltanto un sentimento di ribellione, di insofferenza, ed il bisogno di evadere dalle ormai sperimentate dinamiche familiari, dove regolarmente ne uscivo sempre sconfitta. Avevo quindici anni, il mio malessere si manifestava sempre nel peggiore dei modi, e questo andava a mio discapito, mettendomi con alcuni familiari nella condizione di essere poco stimata, e di avere scarsa considerazione di me. L’ impulsività non era amica, anzi direi che mi era di ostacolo, riuscivo ad esprimere solo rabbia. Un’idea? no, avevo solo un bisogno, il bisogno di evadere, l’idea si fece più avanti, quando mi capitò per caso tra le mani, un giornale, di quelli così detti quotidiani, che diffondono notizie ogni giorno. Non che io all’epoca fossi attratta da questo tipo di lettura, sinceramente non mi interessava affatto sapere cosa accadeva nel mondo, di fatti l’occhio andò a posarsi solo su quel trafiletto in fondo alla pagina, che diceva: cercasi apprendista parrucchiera, poi, a seguire: il nome e l’indirizzo del negozio Nacque l’idea che d’impulso abbandonai subito dopo, si, l’idea mi piaceva, ma contemporaneamente avevo anche tanta paura, paura di non essere all’altezza di creare relazioni al di fuori degli ambienti conosciuti, nei quali mi sentivo sicura, tanto più che si trattava di un ambiente di lavoro, rimuginavo nella testa che mi sarei trovata allo scoperto, non avrei saputo come comportarmi o cosa dire. Qualcosa di più forte, mi spinse a presentarmi presso quel noto ed elegante salone di bellezza ubicato in pieno centro, ne fui attratta. Successivamente, forse per curiosità, o magari semplicemente pensando di soddisfare il bisogno di uscire dalle mura ovattate della mia casa, cercai di concretizzare quell’idea, anche perché la scuola in quel momento non mi dava nessuna gratificazione. Decisi di presentarmi a quell’indirizzo, il cuore mi batteva forte, non so veramente come feci, anche a tacere con la mia famiglia che altrimenti mi avrebbe convinta ad abbandonare questo progetto. mi presentai col fiato in gola, la voce tremante, era la prima volta, sola, senza nessuno pronto a dire, come mi dovevo comportare, cosa dire e cosa tacere, con meraviglia di me stessa piacqui, e così iniziai il mio primo lavoro. Venni accolta e quando decisi che era il momento di andarmene ricordo che il mio datore di lavoro fu molto dispiaciuto, di questo ne fui contenta. Ancora oggi ricordo con piacere quel periodo, questo primo cambiamento di vita, che segnò nella mia adolescenza un inizio importante della mia crescita.
Giovanna
Gioia
Gioia
Forse era meglio non pensare, ma attendere, ci sarebbe voluto del tempo, così si erano espressi i medici. Malgrado fossi terrorizzata per l’evidente gravità, talvolta, qualche rimasuglio di ottimismo faceva ben sperare, ed allora un po’ di sollievo mi alleggeriva da quel dolore intenso che mi colpiva forte nel petto e mi premeva contro lo stomaco. Osservavo speranzosa ogni suo gesto, ogni lamento, ogni suo respiro. Le labbra forzatamente sorridenti, la battuta scherzosa per risvegliarlo, magari un po’ e, mi inventavo giochi per farlo divertire, ma il suo sorriso era sempre più stanco, il colorito biancastro, non potevo fare altro che attendere. Soffocavo ogni reazione alla mia sofferenza, con il cuore in gola, aspettavo, aspettavo paziente, una qualche minuscola manifestazione, un segnale, un minimo cenno, quel poco che poteva bastare per poter ricominciare a vivere. Arrivò finalmente quel giorno, il suo sguardo si risvegliò, girovagando incuriosito, perlustrando la stanza dove eravamo da non so quanto tempo, i suoi occhi si accesero pieni di stupore, i giochi rimasti a lungo inesistenti, ripresero ad animarsi. Fu l’inizio di una lenta guarigione, di un possibile ritorno alla normalità, quel nodo alla gola che avevo a lungo represso, si sciolse all’improvviso attraverso i miei occhi, che luccicarono di gioia.
Giovanna
Casa
Casa
Mi feci coraggio e, con passo furtivo, quasi come una ladra, varcai dopo tanti anni la soglia di quel portone. La curiosità di rivedere la mia vecchia casa mi spinse a salire fino alla porta di ingresso, mi avvicinai, udii delle voci, d’impulso sarei voluta andar via, ma non potei fare a meno di trattenermi ancora un po’. Dietro alla porta due rampe di scale, di passaggio per poter entrare in casa, era là che da bambina trascorrevo gran parte del mio tempo libero e, malgrado le cose siano cambiate, quei gradini rappresentano ancora un pezzo importante della mia vita, sono la mia infanzia, il vissuto immaginario di una bambina, sono parte della mia storia. Dietro la porta, rividi quella bambina, con la faccia un po’ da sbarazzina, seduta sognante, saltellante tra un gradino e l’altro, di tutti gli ambienti della casa quello era il mio preferito, anche se incompreso dal resto della famiglia, Era il luogo ideale per isolarmi dai rumori della casa, nello stesso tempo partecipavo, anche se pur a modo mio alla vita familiare, seduta su quei gradini, infatti, controllavo il passaggio delle persone che volevano salire per andare a casa, così tra un complimento ed una breve conversazione mi tenevo informata delle faccende di famiglia. Il rintocco delle campane del vicino Duomo mi fece ritornare sui miei passi, una breve pausa, senza nessuna nostalgia, là ho lasciato i miei sogni di bambina che ritrovo spesso nella mia testa, ancora oggi cerco sempre un gradino dove rifugiarmi, di quelle scale mi è rimasto solo un felice ricordo, direi indelebile. Così, uscii trafelata da quel grosso cancello nero, che era stato per tanto tempo il portone di ingresso della mia vecchia casa, mi ritrovai sotto il porticato, tra il profumo invitante del caffè del bar vicino, attraversai la strada lentamente, per quella via del centro, tra la gente ed il rumore delle auto.
Giovanna
Viaggiare in Europa
Viaggiare in Europa
Questa volta non sono su aereo con destinazione Parigi, Londra, Amsterdam, mi trovo in un meraviglioso viaggio attraverso le pagine di un libro: La Mano di Fatima. Sono le pagine di questo libro a condurmi nei meandri di luoghi antichissimi, tra il profumo dei fiori nei meravigliosi giardini, stagni, labirinti, angoli segreti e giochi di acqua, tra le distese rocciose di terra rossa, che si allungano verso il mare e, non lontano, al di là del mare l’Africa. La descrizione di luoghi magici tra moschee, lo splendore degli antichi palazzi in stile arabo, con file di archi, decorazioni fatte con caratteristici mosaici mi ha affascinato fortemente, mi ha catapultata in una atmosfera fiabesca che penso si respiri ancora in questa regione della Spagna che si chiama Andalusia. Forte è anche la mia attrazione per le vicende storiche susseguite in questa regione della spagna, dove per secoli si sono avvicendati forti conflitti, per il sovrapporsi di una pluralità di differenze culturali, religioni come quella islamica e quella cattolica e, dove fu possibile soltanto una parziale convivenza a seguito di dure sottomissioni, oggi penso che tutto questo risplenda in un mix tra architettura andalusa ed islamica. Non da meno è la mia curiosità di assaporare tipiche pietanza culinarie, ed infine anche il girovagare attraverso bancarelle e negozietti tipici non dovrà mancare.